Archivio 25/07/2013 Pogettare l’integrazione è possibile?

La risposta credo non possa essere che negativa. La capacità di prevedere e governare i comportamenti individuali e addirittura sociali delle persone in modo da poter concepire spazi urbani e architettonici capaci di favorire da soli il nascere e il crescere di relazioni efficaci e durature è senza dubbio una chimera. Quante città modello, quartieri modello, edifici modello dovremo concepire prima di ammettere che non si può ridurre a teoria scientifica quello che spesso si presenta come un mistero? Quanti fiumi di inchiostro dovremo versare prima di accettare che non abbiamo alcuna idea del perché la stratificazione storica delle funzioni sia la base del successo della città millenaria come la conosciamo in Europa, e poi esistano casi come New York, Los Angeles, Sidney e molti altri, inesistenti fino a qualche centinaio di anni fa, sviluppatesi davvero nel corso degli ultimi centocinquant’anni ed attualmente considerate il vero simbolo dell’idea di città moderna? Quanti centri commerciali dovremo costruire per permettere alle popolazioni locali di fare acquisti, dopo aver trasformato i nostri nuclei storici in centri commerciali per turisti? Potremmo continuare con queste domande all’infinito, quesiti che mettono in risalto le profonde contraddizioni e la complessità che hanno caratterizzato lo sviluppo urbano dalla rivoluzione industriale in poi, da quando cioè le condizioni naturali al contorno hanno cessato di essere decisive per la nascita e la crescita di un agglomerato urbano e l’affermarsi dei mezzi di trasporto meccanizzati ne ha sconvolto forma e struttura.
A complicare le cose, uno dei fenomeni più affascinanti e potenti della storia, quello delle migrazioni delle popolazioni. Contrariamente a ciò che siamo portati a pensare, è risaputo come questo fenomeno sia vecchio quanto il mondo, che anzi si è via via popolato proprio attraverso lo spostamento in massa di gruppi più o meno organizzati di esseri umani che nel corso dei millenni si sono scontrati, sopportati, integrati. Quello che è veramente inedito, e ovviamente non soltanto in questo campo, è la velocità, l’accelerazione, il concentramento, la variabilità nel tempo che si sono registrati a partire dal ventesimo secolo. Sotto certe condizioni viaggiare per migliaia di chilometri in poche ore è diventato del tutto normale e abbastanza economico da poter essere affrontato dalla maggior parte delle persone. Com’è facile capire, questo ha portato ad uno stravolgimento nelle regole di convivenza fra individui provenienti da diverse culture, costringendoli ad abituarsi sempre più spesso e sempre più rapidamente ad accettare o essere accettati, ad accogliere o essere accolti, in ogni caso ad aprire la mente o soccombere sotto una moltitudine di nuove abitudini, nuovi odori, nuovi sapori, nuovi colori. Sì, perché la storia insegna anche che le migrazioni non sono arginabili. Non esistono leggi, divieti, confini più o meno fisici, oserei dire genocidi, che possano impedire all’uomo di scoprire e di tentare di migliorare la propria condizione di vita, spesso costringendolo a viaggi pericolosi e massacranti verso l’ignoto, qualche volta a rischio della vita stessa. E se le migrazioni dei ceti sociali più alti sono spesso indolori ed anzi interessanti sia per chi le affronta sia per chi le subisce perché si svolgono in ambiente economicamente più rilassato e caratterizzato da un grado culturale più elevato, che quasi sempre equivale ad una tolleranza maggiore, quelle delle persone più povere si traducono quasi sempre, almeno all’inizio, in disagio, difficoltà, solitudine. Da sempre, soprattutto quando si affronta uno stravolgimento simile della vita, più povertà significa più debolezza, maggior rischio, minor tolleranza, ed è a questi aspetti che il disegno dell’ integrazione dovrebbe dar risposta. Ma siamo sicuri che sia veramente possibile?
Pensando allo sviluppo delle città nel corso dei secoli, dobbiamo ammettere che come in molti altri settori le cose sono via via migliorate, anche se ovviamente abbiamo salito non più di tre gradini dei mille che compongono la scala dell’integrazione. Il villaggio globale ci ha insegnato anche che non si può generalizzare, il flusso di informazioni continuo che ci bombarda ha almeno il merito di svelarci come, al di là dei luoghi comuni che vorrebbero tutto standardizzato, vivere a Bangkok sia molto diverso che vivere a Londra, a Bagdad, ad Amsterdam, a Miami. Quindi anche parlare in astratto dello sviluppo della città, ed illudersi che l’integrazione abbia una ricetta progettuale univoca è un’ utopia. E’ comunque indubbio che in tutto il mondo la gente si sta sempre più velocemente abituando a persone di colore diverso e magari con tratti somatici un pò differenti, che almeno all’inizio non parlano bene la lingua del posto e non si adattano al cibo o alla strana forma dei mobili, che usano l’androne comune come se fosse il loro oppure che ti ricevono in casa come se tu fossi un re, solo perché sei un ospite. Non esistono più i ghetti fisici, le zone delle città destinate d’autorità a un gruppo etnico o religioso poco gradito, magari composto da persone del posto. Anche se ovviamente esistono ancora, e spesso sono delle novità, quartieri o zone della città che diventano “ghetti di fatto” perché popolati quasi esclusivamente da gruppi omogenei per provenienza, cultura, religione, spesso non perché siano costretti a farlo ma perché sono loro stessi a preferire così, dato che la vicinanza con persone simili a noi è quasi sempre rassicurante, soprattutto quando ci si trova tanto lontani da casa. Il tentativo di integrarsi è rimandato a tempi migliori, quando magari ci si è stabiliti e stabilizzati dopo aver tentato in tutti i modi di ricreare un pezzettino di “patria” all’estero. Ancora meglio, alle generazioni future, quando il nascere, il crescere, il frequentare la scuola in un dato luogo renderà molto più labile per tutta la famiglia il concetto di nazione di provenienza e di adozione. L’ esempio più semplice è ovviamente rappresentato dalla tante “China Town” in giro per il mondo, ma che dire delle “Little Italy”, o dei quartieri africani, o ancora delle “Casbah”, e via dicendo. Gli esempi di questa complessità potrebbero, dovrebbero ovviamente continuare a lungo, e tutti ci mostrerebbero, a mio parere, come sia necessario “progettare” le menti, non gli spazi. Questo non significa certo abdicare al caos e rinunciare a concepire una città migliore, più accogliente e funzionale, caratterizzata da quartieri ed edifici che aiutino i processi di compenetrazione fra diversi usi e costumi, accompagnando coloro che vengono da fuori nel difficile cammino dell’ inserimento, ed insegnando a coloro che ci sono che l’accoglienza è di fatto una scelta irrinunciabile e più redditizia. Significa però anche essere consci che questi processi continueranno a svilupparsi ed evolversi in direzioni e con modalità che non sempre sono programmabili o interpretabili in anticipo, condizionati come sono soprattutto dalle prospettive economiche e di benessere che caratterizzano le nazioni dei diversi momenti storici. Sì, perché chi si sposta lo fa nella maggior parte dei casi per migliorare le sue condizioni di vita, non semplicemente per il piacere di conoscere un’altra cultura. Chi avrebbe mai detto, per esempio, che tanti lavoratori balcanici e slavi, arrivati in Italia negli ultimi vent’anni e quasi sempre impiegati nell’ edilizia, spesso divenuti titolari di piccole imprese proprie o individuali, magari già con figli nati in Italia che avevano già iniziato a frequentare le scuole, avrebbero deciso di tornare in Albania piuttosto che in Romania a causa delle conseguenze della crisi economica? Chi avrebbe mai potuto immaginare che dopo un periodo di acquisito relativo benessere, si sarebbero trovati nelle condizioni di tornare da dove erano venuti, anche perché nel frattempo quei paesi hanno iniziato un magari lieve sviluppo, che offre comunque loro maggiori possibilità? O magari soltanto perché vivere qui sarebbe stato sicuramente più agevole, ma anche molto più caro ed addirittura insostenibile se il lavoro non gira come dovrebbe.
Risulta quindi evidente come i tempi e le modalità del progetto urbanistico, urbano e architettonico non siano più consoni alla velocità di trasformazione sociale e culturale, e forse non lo sono mai stati. Progettare con la speranza di trovare una ricetta valida e duratura per tutte le persone provenienti da tutte le parti del mondo credo non sia il modo corretto per aiutarle a vivere meglio nel loro nuovo paese, così come non aiuterà le persone che le devono accogliere a farlo in un modo migliore. Anche perché è probabile che nel giro di pochi anni o decenni sia chi è arrivato sia chi c’era già, decida poi di spostarsi. Ciò che invece sarebbe importante fare, a mio avviso, è sicuramente concepire spazi che favoriscano lo scambio e lo sviluppo comune, ma soprattutto aiutare una crescita culturale generalizzata che faccia capire alle persone come l’incontro con usi e costumi diversi dai nostri sia di fatto da un lato irrinunciabile e dall’ altro una delle esperienze più ricche, emozionanti, gratificanti, insomma degne di essere vissute che ci sia dato di sperimentare. Se infatti si pensa alle enormi differenze che hanno caratterizzato il concepimento e la realizzazione degli spazi nel corso della storia e nelle diverse culture, è intuitivo pensare a come sia difficile accogliere alla stessa maniera una persona proveniente dall’ Ucraina piuttosto che un’altra proveniente dal Senegal, credendo che la forma dell’ambiente, piuttosto che le sue dimensioni, o ancora l’aggiungersi delle funzioni possa in qualche modo farle star meglio e andare d’accordo, fra loro e con coloro che si trovavano lì prima di loro. Non resta quindi che progettare con coscienza per quelli che ci sono e per quelli che arriveranno, nella convinzione che solo elevando il livello di conoscenza individuale e reciproca sarà possibile una vita comune più rilassata e proficua. Che solo fornendo a tutti gli individui le maggiori opportunità possibili di crescita personale economica si possono aiutare i processi di accettazione ed integrazione. Che spesso, come ci insegna ad esempio New York, spazi del tutto innaturali e caratterizzati da una progettazione votata al massimo profitto, danno luogo ai processi di vita comune più efficaci anche se, ovviamente, ancora molto ricchi di contraddizioni, ingiustizie, difficoltà.

Alessandro Pretini
nuti & pretini architetti associati
www.nutipretini.it
twitter: @nutipretini

Luglio 2013